Il giardiniere dell’anima

Un giorno sentimmo un fragore di zappe e rastrelli che cozzavano e sbattevano… lo Zio afferrò due enormi pale… s’intrecciarono le grida “No Zovàr! No, metti giù le pale , non fare lo sconsiderato!” Ma lo Zio non rispondeva, marciava verso il campo con una pala per spalla, “una per riposare e una per faticare”
Tutte le mattine lavorava un pezzetto di terra, quel che restava di un più grande campo… dopo che il letto dell’autostrada l’aveva tagliato. … Avevano trasformato un campo vivo in macerie e poi se ne erano andati.
Lo Zio scavò in profondità lungo il perimetro del campo, seguendo l’arco della nuova autostrada, e lasciandosi dietro un lungo mucchio serpeggiante di detriti. Scavò e spalò e spalò e scavò. Parecchi vicini interruppero il lavoro per consultarsi. Tornarono con pale e picconi per dare una mano.
Nel pomeriggio, per quanto lontano potesse spingersi lo sguardo, c’era un fosso che correva lungo il bordo di una superficie di circa mezzo ettaro… quella che sarebbe rimasta in mano al villaggio.
Cadde la notte. Lo Zio tornò faticosamente a casa. Mangiò una grande quantità di zuppa, masticò un grosso pezzo di pane nero di segale e tracannò birra fresca da una bottiglia color ambra. Poi uscì di casa portando un vecchio secchio rosso e ammaccato ricolmo di combustibile… camminava piegato da una parte per il peso.
Là nel campo, nella notte pacata e senza vento, con la massima cura versò il combustibile sui due lati e poi nel centro. Dal limitare del campo accese lunghi fiammiferi di legno e li gettò in vari punti. L’intero campo eruttò in una vampata talmente grande che attirò gente fin da dove la nera nuvola di fumo si poteva vedere. I monticelli di detriti su tre lati e il fossato su un altro contennero la fiammata….
Il giorno dopo il campo era ancora fumante ma il fuoco era spento. Con la sua zappa affilata come un rasoio lo Zio scorticò radici annerite e stoppie qua e là, esponendo così ancor più la terra.
“Vedi questa bruciatura e questo annerimento del suolo?” disse lo Zio, “Presto darà molto, tanto da non crederci.”
“Che cosa Pianterai?” domandai io.
“Non pianterò nulla” disse lo Zio.
Non capivo. Avevamo bruciato la terra altre volte prima, affinché la cenere rendesse di nuovo fertile il terreno stanco.
“Perché lascerai la terra spoglia e incolta, Zio?”
“A mo’ di invito, ragazzina.”
Lo zio spiegò che i pini e le querce non si sarebbero diffusi nei campi per crescere e formare di nuovo dei boschi se non avessimo lasciato inseminata la terra. Mio zio contemplava la possibilità che quella nuda distesa tornasse a essere un bosco, un bosco di grande bellezza e tranquillità.
“Essere povero e senz’alberi significa essere l’uomo più misero del mondo. Essere poveri e avere alberi significa essere davvero ricchi, ricchi di ciò che il denaro non potrà mai comprare…”
“I semi della nuova vita non trovano ospitalità né motivo per riposare qui se non lasciamo tutto libero… La terra è tanto paziente. Vedi? Prende il seme, l’erbaccia, l’albero, il fiore; prende la pioggia, la grandine, il fuoco. É l’ospite perfetta”, disse lo Zio.
Io compresi. I semi della terra, le creature della terra, le stelle del firmamento e noi medesimi: tutti siamo i convitati di questo campo.
Dunque lasciammo spoglia la terra… E mentre dormivamo, quella notte, semi da tutti gli angoli del mondo cominciarono a viaggiare verso il campo aperto con divina velocità e fortuna.
E accadde che con il tempo questo campo aperto dall’incendio – questo campo incolto e in attesa – attrasse proprio gli estranei giusti, i semi giusti. A tempo debito presero a mostrarsi minuscoli alberelli. Vennero le querce, vennero i pini bianchi, vennero gli aceri rossi e argentei, e persino salici verdi e rossi trovarono la strada verso l’incurvatura più lontana del campo ospitale, là dove li aspettava un piccolo acquitrino. Per lo Zio questi alberi erano come bambini, vivi e giocosi e danzanti.
Passò un bel po’ di tempo, perché gli alberi crescono lentamente… Il bosco diventò la casa vivente di rigogoli neri e arancione, dei cardinali scarlatti e delle ghiandaie blu… Là arrivarono anche le farfalle che atterravano con un lievissimo fruscio sui fili d’erba più sottili…

Clarissa Pinkola Estes esercita la professione di analista, ed è anche scrittrice e saggista. Nata da una famiglia ispano-americana, da piccola è stata adottatata da una coppia di ungheresi, ed è cresciuta nel Michiana, tra l’Indiana e il Michingan. A fine anni ’60 si è spostata ad Occidente, verso le Montagne Rocciose, venendo ancor di più a contatto con culture diverse. Si è laureata in psicologia etno-clinica e si è poi specializzata in psicologia analitica; ha conseguito il Dottorato in etnologia ed è stata direttrice del C.G. Jung Center di Denver. È impegnata nel sociale e ha ricevuto molti premi alla carriera. Specializzata in disturbi post-traumatici, nei quattro anni successivi al massacro alla Columbine High School si è occupata del sostegno psicologico alla comunità. Dall’11 settembre 2001 lavora con i sopravvissuti e con i familiari delle vittime della costa occidentale e orientale degli Stati Uniti. Copiosa la sua produzione editoriale, che spazia dalla narrativa alla saggistica, fino all’attualità. Tra i suoi libri, Donne che corrono coi lupi Il giardiniere dell’anima; L’incanto di una storia ; La danza delle grandi madri; Storie di donne selvagge; Forte è la Donna: dalla Grande Madre Benedetta, insegnamenti per i nostri tempi e I desideri dell’anima.

Grazie Cecilia Gallia per la tua lettura.

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NUVOLARIO di PAROLE
Bellezza, stupore e meraviglia richiamano ad un ascolto profondo della Natura. Oltre l’avventura di camminare, girovagando per scoprire nuovi paesaggi, nuovi scenari naturalistici, desideriamo ora accompagnarvi in un luogo immaginario, di condivisione di scritti e liriche, che intendono dar voce a storie, vissuti, esperienze di vicinanza alle piante, agli animali, al mondo inanimato, alla Terra e al Cielo.
…uno spazio aperto in un intervallo atemporale che ci piace chiamare: NUVOLARIO di PAROLE.